Alle origini di un mito: il Grifone

di Widuhudar

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Il grifone è un animale mitico rappresentato con 4 zampe: le due anteriori e il capo, tradizionalmente, appartengono ad un’aquila, mentre il resto del corpo è simile a quello del leone. L’immagine di due grifoni che attingevano al fuoco di una coppa era diffusa nella antica religione persiana zoroastriana. Una delle più antiche immagini di grifone proviene dall’antica città di Susa, nell’attuale Iran. Altri grifoni sono stati rappresentati nelle pitture murali delle piramidi così come nel palazzo di Cnosso a Creta. La più antica immagine di Grifone proviene da un sigillo ritrovato in Iran e risalente al 3000 a.C. Un equivalente del grifo o grifone presso i Sumeri era il cd Chumbab.  
Nelle sue prime rappresentazioni il grifone è simbolo della potenza divina, tuttavia nella tarda cultura greca egli assume caratteristiche più cupe: nella pittura vascolare greca viene spesso rappresentato nell’atto di assalire esseri umani o animali, tuttavia è anche messo in relazione con Apollo il cui carro, secondo la tradizione, era trainato dai grifoni, con Athena e con Nemesi e, tra le rovine di un santuario di Hera, sono stati ritrovati dei grifoni bronzei. Anche la statua di Athena posta nel Partendone recava dei grifoni sui rilievi dell’elmo.  

Nel “Prometeo incatenato”, Eschilo fa pronunciare a Prometeo queste parole: “Attenta. Ecco il quadro che segue: ripugna, al contatto. Schiva la muta di Zeus, i Grifoni: becchi taglienti, non sanno ringhiare. Con loro il branco sgroppante dei guerci Arimaspi, al galoppo: stanno alla sponda del rivo Opulento, che fluisce dorato. Gente da non starci vicina”.

Negli gli "Arimaspeia" o "Canti Arimaspi", attribuiti ad Aristea (Aristeas di Proconnesus) i grifoni vengono posti a guardia dell’oro degli Iperborei nel lontano Nord. Aristea ebbe modo di viaggiare attraverso le montagne del Caucaso attorno a 7 secolo a.c., al suo ritorno raccontò di aver visto grifoni e cavalieri-ciclopi, gli arimaspi. Plinio tramanda l’esistenza di una “Cava dei venti” dove i ciclopi si scontrano con grifoni. I grifoni, esseri mitici con caratteristiche rapaci, vengono dunque messi in diretta relazione con il mitico mondo degli Iperborei. Un’altra leggenda, infine, narra del tentativo di Alessandro Magno di cavalcare uno di questi favolosi animali.

A destra: una pittura vascolare greca “a figure rosse” rappresenta un satiro e un grifone che attaccano un arimaspo (350-300 a.C.)

Il popolo dei Pazirik, abitanti della Siberia occidentale ritenuti gli antenati degli Sciti, si distinse come etnia padrona delle steppe dell’Europa orientale dal sesto al secondo secolo a.C.. I Pazirik produssero un gran numero di oggetti raffiguranti grifoni, come oggetti personali, amuleti, stoffe, tappeti ecc… In questo vasto repertorio iconografico rientrano anche alcune raffigurazioni dove i grifi vengono ritratti nell’atto di rapire o assalire altri animali (come il grifone che assale l’ariete qui a lato riportato).

Sui corpi di due mummie ritrovate nelle desolate lande della steppa sono ancora visibili gli stessi elementi ornamentali: sui resti di un uomo scoperti da un’equipe di archeologi russi vi sono tatuaggi con motivi zoomorfi dove si distinguono dei grifoni. Lo stile e il contesto ha fatto parlare di questi tatuaggi associandoli ad esempi di tatuaggi tribali proto-indoeuropei. Nella tomba di una “principessa” pazirik sono stai scoperti ornamenti lignei con uccelli (aquile o grifoni) raggruppati intorno a quello che si pensa fosse un “albero della vita”.  

La raffigurazione di animali alati nell’Europa continentale è di derivazione mediterranea: in Grecia l’aquila è l’animale di Zeus e, come simbolo di glorificazione politica, ha radici ben più antiche, come accade nella civiltà mesopotamica. Attraverso la mediazione romana il simbolo dell’aquila si espande nel resto dell’Europa continentale con la sua valenza celebrativa e glorificatrice: in Gallia meridionale, nel quarto secolo, l’aquila è presente su molti sarcofagi (aquila con corona e monogramma). Ma il motivo iconografico dell’aquila presso i longobardi come presso altre popolazioni germaniche migranti viene fatto risalire dalla dalle raffigurazioni dei labari romani o, nella sua variante altomedioevale direttamente dal simbolo dell’evangelista S.Giovanni (ciò vale per quello che riguarda lo stile, sebbene la derivazione ancestrale provenga dall’animale sacro in quanto legato al culto di Odin). L’uso di determinate scelte stilistiche viene rimandata ad un’origine ben più lontana, ciò dal momento in cui gli stessi tratti comuni sono presenti pure nella “raffigurazione di un grifone in ambiente scitico, su un tappeto Pazirik del quinto secolo a.C.: le ali spiegate e schematizzate sono dello stesso genere o maniera: non è più semplicemente un dato iconograficamente neutro ma una soluzione formale.” (Sergio Tavano, “Romani e Longobardi , Pag 98).

L’arte degli Sciti influenza quella delle popolazioni slave ed anche quella delle popolazioni scandinave, ma elementi comuni sono presenti pure nei corredi funerari sassoni di Sutton Hoo, così come nell’ultima arte celtica ( vedi gli elementi decorativi del calderone di Gundestrup).

I Sarmati (conosciuti anche come Alani, Roxolani, Jazigi) erano guerrieri di piccola statura, massicci e biondi: vengono considerati discendenti degli Sciti o comunque in stretta connessione con la loro famiglia, da più ricercatori, il ceppo scito-sarmato, viene identificato come proto-slavo. Gli Scito-sarmati continuano a influenzare l’arte scandinava dal 450 al 600 d.C.: attraverso i contatti vichinghi in Russia meridionale, nel corso del nono secolo, questa influenza prende piede attraverso le vie commerciali con la Scandinavia. Le derivazioni più evidenti sembrano provenire dall’area del Volga e del Mar Caspio dove l’arte degli Sciti mostra, in questo periodo, elementi intatti ben definiti in “piccoli oggetti, come le placche bronzee di Borre, in Norvegia, dove emerge chiaramente e riguarda un repertorio di animali quali cervi, grifoni e animali fantastici e nello stile vero e proprio” (Tamara Talbot Rice, THE SCYTHIANS, Thames and Hudson, London 1957). Altri elementi di derivazione scitica sono riscontrabili, infine, nelle decorazioni di Oseberg e Gökstadt.

 

Il Grifone presso i Longobardi

E’ noto e risaputo, anche attraverso la toponomastica locale dell’Italia settentrionale, che Re Albwin diede vita al Regno Longobardo con un esercito nel quale erano presenti anche elementi sarmati (oltre a uomini appartenente a Sassoni, Gepidi, Bulgari, Pannoni, Norici e Svevi) e l’influenza delle loro tradizioni tribali sarebbe comprovata dai rituali cavallereschi dei longobardi di Benevento. Erodoto cita le amazzoni dei Sarmati che, come ogni popolazione nomade, viveva a cavallo e –in comune con i Longobardi- dava molta importanza all’elemento femminile.

Il grifone, in qualità di elemento simbolico e decorativo, ha raggiunto i longobardi attraverso la mediazione indo-iranica dei Sarmati? O si potrebbe ipotizzare che l’adozione di questo simbolo presso i Longobardi passasse attraverso la mediazione dell’Arianesimo piuttosto che attraverso attraverso l’infulenza della dottrina cattolico-romana?

Perché -anzichè il pavone- in alcuni casi i Longobardi utilizzano il simbolo del grifone? Perché questo accade ben prima della sua adozione ufficiale quale simbolo “cristologico”?

Circa la figura di Cristo presso i longobardi cristiani, va ricordato che la dottrina del cristianesimo ariano propugnava l’unità di dio incompatibile con la trinità, e l’inconsustanzialità del padre col figlio: vale a dire che solo il padre ha essenza divina mentre Cristo ha essenza puramente umana (da qui la celebre frase di Ario “ci fu un tempo in cui il Figlio non c’era” ): la natura umana e autonoma di Cristo veniva sottolineata e rimarcata di conseguenza, e così il significato dei suoi riferimenti simbolici nell’arte sacra.

Gli scultori longobardi producono un motivo iconografico con 2 grifoni in coppia ricolti verso l’ ”albero della vita”. I grifoni, in questo caso, “attingono all’albero” (come al fuoco dell’antica religione zoroastriana) e non ne sono a difesa (come nel caso delle sfingi, rivolte sempre all’esterno del luogo a cui fanno la guardia). Presso i cristiani delle origini il grifone aveva una valenza negativa e incarnava poteri demoniaci e l’immagine del diavolo. Solo dopo Dante il grifone viene assunto come simbolo “cristologico” al pari del pavone ( che rappresenta il carattere umano e divino di Cristo e ne simboleggia la sua resurrezione) mentre il simbolo paleocristiano che sublima l’immagine di Cristo “per eccellenza” è il pavone.

Il grifone viene raffigurato nell’atto di attingere al calice ( e dunque in connessione con l’onnipresente mistero del “Santo Graal”?) in più di una raffigurazione altomedioevale presente in diverse abbazie accentuando, in questo modo, la valenza della sua versione “cristologia”.

 

Il grifone nell’iconografia longobarda

Presso il museo Malaspina di Pavia è conservata una parte del pluteo dell’oratorio di San Michele alla Pusterla, risale all’VII secolo e rappresenta due grifoni ( come nella versione sumera con la testa di leone) rivolti verso l’albero della vita. Stranamente la testa d’aquila del grifone viene duplicata all’interno del motivo dell’albero della vita. Dunque i grifoni che attingono all’albero della vita (così come al calderone dell’antica religione zoroastriana) sarebbero 4, e si riducono a 2 nella versione con la testa di leone più altri 2 di cui sarebbe visibile solo il brcco d’aquila. I due “grifoni” leonini , a ben vedere, hanno il corpo che termina con la coda di pesce tipica delle raffigurazioni dei mostri marini nei bestiari medievali, sotto di essi sono ben distinguibili due delfini. Si tratta perciò di ibridi, creature che provengono dal mare per attingere dall’albero della vita.

Nel chiostro della basilica di Sant’Ambrogio a Milano, sono visibili alcuni rilievi dei capitelli che recano motivi simili. Si tratta di leoni posti a guardia dell’albero della vita (cioè rivolti verso l’esterno) e di un grifone ritratto nell’atto di assalire un lupo o un cane…dunque secondo l’antico significato “diabolico” che gli era stato attribuito prima della glorificazione di Dante (il Sommo Poeta, nel XXIX canto del purgatorio, parla di un carro a due ruote trainato da un grifone con il corpo del volatile dorato e la parte leonina di rosso vermiglio) o comunque secondo la sua antica versione “pagana” di assalitore/combattente. Con il concilio di Trento ogni figura mitologia nel panorama dell’agiografia cristiana sarebbe scomparsa e –dunque- anche per il grifone, come per altrettante derivazioni paganeggianti utilizzate in piena “licenza d’artista” non vi sarebbe più stato alcuno spazio.

Sotto: rilievi scolpiti sui capitelli del chiostro di S.Ambrogio a Milano.

Dall’Irminsul presso le Externsteine…

Qual è il significato che si cela nei tratti dell’iconografia cristianizzata dell’albero della vita? Presso il santuario megalitico tedesco delle Externesteine , in Vestfalia, in un rilievo scolpito nella roccia, è riconoscibile quella che si crede sia una raffigurazione dell’Irminsul, l’idolo sassone abbattuto dall’esercito cristiano di Carlo. Si suppone che lo scultore di quest’opera fosse un monaco benedettino di Paderborn (a 50 km dalle Externsteine sede di un’abbazia e di una sede vescovile), l’opera viene fatta risalire ad un periodo tra XI e il XII secolo.

Giuseppe di Arimatea, è raffigurato nell’atto di sostenere il corpo del Cristo, mentre Nicodemo si “eleva” su una figura arborea, piegandola per mettere la testa al centro della croce. Secondo il vangelo di san Giovanni, Nicodemo era “dottore della legge” : è possibile che questo monaco benedettino avesse voluto nascondere un arcano significato nella composizione simbolica? Nicodemo piega (ma non spezza) l’antica saggezza, per porre l’intelletto al servizio della nuova (quella cristiana). Ipotesi suggestiva ma impossibile da dimostrare.

Il bassorilievo ha una dimensione di 3.60 m di larghezza x 3.15 m di altezza: qui l’Irminsul è il solo riferimento ad uno stile locale tipico dell’arte medievale, la forma della croce non ha i tratti di quelle romaniche o gotiche ma è bizantina, mentre i vestiti (in particolare quelli di Nicodemo e Giuseppe di Arimatea) rammentano i prototipi dell’arte iranico-sassanide.

Da questo primo esempio si può partire per verificare in che misura si possa parlare di altri esempi di “Irminsul” assimilabili al motivo cristianizzato dell’albero della vita.  

 

L’incontro con l’Irminsul longobardo 

Nel marzo del 2001 mi trovavo in una birreria bavarese presso Grafrath in occasione della festa di Ostara (equinozio di Primavera) di un’organizzazione tedesca. Durante una pausa mi avvicinò un distinto signore che, grazie a una buona birra ed alla pronta traduzione di un confratello, mi disse di aver portato, apposta per noi, una raffigurazione di un “Irminsul longobardo”. Mi porse una fotocopia che ritraeva quello che sembrava un rosone in pietra, dalla fotocopia si poteva dedurre (la qualità era piuttosto scarsa) che si trattava di una raffigurazione molto simile al cosiddetto “albero” raffigurato presso Paderborn e conosciuto come Irminsul. Si trattava di un rilievo con 4 fronde stilizzate (anziché due) con, ai lati, due grifoni.

Ero assolutamente ignorante in merito all’esistenza di questo Irminsul longobardo: si trattava una replica dell’idolo sassone distrutto dai papisti di Carlo magno? E dove si trovava?  

Ai tempi abitavo in quel di Asti e conoscevo solo un altro esempio di scultura longobarda che poteva rappresentare un “grifone”: aveva il becco spezzato e si trovava presso il duomo di Asti. L’acquasantiera ricavata da un capitello di qualche edificio religioso dell’antico ducato longobardo di Asti recava diverse raffigurazioni… non si trattava degli animali dei 4 evangelisti ma di teste umane, animali e di animali o maschere “fantastiche”.

In passato quest’opera aveva attirato le attenzioni del nostro istituto pangermanico “Ahenerbe” tanto da essere fotografata e riprodotta in un’opera sui Longobardi ("Geschichte der Langobarden”) La somiglianza dell’albero con il motivo dell’Irminsul sassone era eccezionale: come ho scritto, la differenza consisteva nel fatto che la versione longobarda aveva 4 fronde stilizzate, e lungo il fusto si incrociavano le code dei grifoni e 4 rami con fronde e germogli riempivano la composizione racchiusa in un bel tondo.  

La scelta di questo motivo ornamentale dell’arte longobarda è tanto più significativo se visto alla luce delle scelte politiche del regno Longobardo: "Il Cristianesimo dei Longobardi non doveva essere altro che un piccolo strato di vernice passato su un fondo di paganesimo molto radicato. L’opportunità politica aveva guidato le scelte di re come Tatone, Vacone o Audoino nella loro scelta cristiana : ariana quando i goti erano stati potenti, cattolica quando serviva l’aiuto dei cattolici bizantini contro i Gepidi ariani. Già questo chiarisce il valore ancora esclusivamente politico e ufficiale dell’adesione al cristianesimo dei Longobardi.(...) Ma, alla base, essi erano ancora fortemente pagani. Odino e Thor , le antiche divinità che li avevano accompagnati nella loro migrazione plurisecolare , dall’Elba (o dalla Scandinavia ?) al Danubio e oltre , non erano stati ancora dimenticati dai guerrieri longobardi. E gli stessi riti e comportamenti della regalità erano ancora impregnati di paganesimo.” ( Stefano Gasparri, I Longobardi - alle origini del Medioevo italiano, p.24, Giunti). 

Il mascherone dell’acquasantiera del Duomo di Asti non raffigurava un toro o un bue? Ma in un angolo opposto del capitello ve ne era già rappresentato uno, la parte spezzata sembrava avere la base triangolare di una piramide e poteva essere a tutti gli effetti un becco, ai lati del quale era ancora visibile l’elemento corneo delle narici, due sporgenze che si sollevavano al di sopra di quelle che parevano orecchie potevano essere delle corna. Si trattava davvero di un grifone?

A destra: particolare dell’acquasantiera del duomo di Asti.

Dalle note in calce all’immagine fotocopiata si poteva risalire all’abbazia di Pomposa, in provincia di Ferrara. Si tratta di ciò che resta di un insediamento di monaci benedettini risalente al VI - VII sec. Come l’anonimo scultore del rilievo delle Externsteine, anche in questo caso, l’ordine benedettino gioca un ruolo fondamentale nella trasmissione di precisi codici iconografici, non a caso come in tutte le abbazie, era presente una vasta biblioteca con amanuensi esperti in grado di veicolare ogni sorta di immagine. Incastonato nel protiro della chiesa, vale a dire su ciò che rimane di quello che un tempo era un più vasto complesso, si trovano due rosoni di pietra, identici, sui quali è scolpito l’Irminsul con i due grifoni.

La struttura attuale dell’atrio risale all’XI secolo ma è rielaborata su una struttura preesistente dell’VIII.

L’influenza longobarda, o “lombarda” in un territorio che longobardo non era non si fa sentire solo in questo rilievo, ma nella struttura della torre campanaria di 48 metri, con ben 9 ordini di archetti pensili sui quali si apre una serie progressiva di finestre.

Nel duomo di Ferrara è ancora visibile la forte impronta di diverse famiglie di “Magisteri Comacini”. I simboli della scienza sacra di queste maestranze si manifestano nei rilievi ad intrecci (simili a quelli formati dall’intreccio delle code dei grifoni sul fusto dell’Irminsul di Pomposa) e nelle caratteristiche “colonne annodate” piuttosto numerose nel duomo di Ferrara (e presenti anche sul dorso dei leoni stilofori nel protiro del duomo). Una derivazione “lombarda” dei rilievi di Pomposa è più che giustificata non solo da questioni formali ma anche in ragione delle influenze artistiche che, nel complesso, determinano lo stile locale della regione.

L’immagine del grifone assume –dunque- una doppia valenza…una più rassicurante, legata ai dogmi della religiosità ufficiale, che però cela in sé un lato più profondo, un significato nascosto, ben presente nella cultura tribale dei Longobardi, presso coloro che combattevano e che avevano ereditato il senso di protezione che i simboli dell’eredità ancestrale sanno offrire.  

Nel territorio del Canavese ritroviamo i grufoni accostati all’albero della vita nell’abbazia di Fruttuaria (eretta intorno all’anno Mille dal monaco-architetto Guglielmo da Volpiano): il mosaico mostra due grifoni snelli intorno a un asse arboreo stilizzato. Il contesto sociale, etno-culturale nel quale vide la luce quest’opera è quello di una terra nella quale l’elemento longobardo è fortemente presente, ben oltre la caduta del Regno e dunque, stando alle corrispondeze storiche, si può definire anche questa un’opera dal carattere “longobardo” (in un atto notarile del 1° febbraio 1180 leggiamo che Imelda, vedova di Adepandulfus , nella città di Yporegia –Ivrea – con i figli “…longobardorum lege vivere confitentes”, così, in un altro documento del 31 dicembre 1007 per compravendita di un campo si legge “Nos Amicu Notarius et Amalrjcus presbiter fratis germani set filus quondam Exemberti iudex qui professi sumus ex nazione nostra lege vivere langobardorum…”).

Nell’ambito della cultura tribale longobarda il grifone compare in più di un’occasione e al di fuori del contesto dell’iconografia cristiana: in una lamina in oro sbalzato, guarnizione decorativa per una sella, compaiono due grifoni, ai lati di un albero della vita (in corrispondenza delle radici dell’albero, in basso, è posto un “nodo”, molto simile al motivo decorativo scandinavo del Valknutr, lett. “nodo degli uccisi/dei caduti”). La guarnizione proviene dalla tomba 119 della necropoli longobarda di Castel Trosino–Udine ( si veda il testo di O.Von Hessen nel catalogo della mostra “I Longobardi” in cui il pezzo è stato esposto, svoltasi a Cividale nel 1990)

A sinistra: il mosaico dei grifoni dell’abbazia di Fruttuaria ( San Benigno Canavese, Torino) - A destra: il disegno alla base della decorazione su lamina dorata della guarnizione di sella (tomba 119 della necropoli longobarda di Castel Trosino–Udine)  

Il grifone è dunque un simbolo da mettere in relazione diretta con il mito iperboreo, un animale il cui simbolismo cristologico cela significati più profondi, le cui radici precedono e scavalcano la diffusione del cristianesimo in Europa. L’iconografia dei rilievi di Pomposa appartiene alla stessa matrice del rilievo delle Externsteine presso Paderborn ed è frutto della circolazione di modelli attraverso il flusso della rete di monasteri nell’Europa centro-settentrionale dell’epoca. E’ bizzarro e incredibile come in uno spazio così ristretto si trovi una raffigurazione così carica di contenuti simbolici di così vasta portata storica, un tesoro che è pervenuto a noi sub limen attraversando indenne i secoli.

Widuhudar